domenica 5 ottobre 2008

Respirare l’odore di alcol e antisettico che pizzica le narici.

Il mio respiro è regolare, non ho paura.

Non ne ho più.

E’ un rito.

Tutte le volte che torno.

Provetta con tappo viola per emocromo, tappo rosso per ds DNA autoanticorpi, la provetta per la tipizzazione linfocitaria.

Sul tavolo vacuetainer, ago a farfalla, blu. Garzine imbibite di disinfettante.

Mi stinge il laccio emostatico appena sopra all’incavo del gomito, lì teso a strozzare il mio bicipite ben poco sviluppato. Mi guarda il polso:

“Sei molto magra” dice ”Sei dimagrita ancora?”

No.

Le mie vene blu, si vedono bene , la mia pelle è trasparente.

Si gonfiano.

Mi piacciono le vene gonfie, pare che stiano per esplodere da un momento all’altro e schizzare sangue sui muri.

“Fai pugno”

Affondo le unghie sul palmo della mano. E stringo forte.

Odio stringere il pugno. Mi sembra sempre che la mia mano per quanto tesa al massimo dello sforzo non sia abbastanza potente da trattenere l’invisibile che sfugge tra gli spiragli delle dita.

Tutte le volte mi ripropongo di non guardare quando l’ago trafigge la cute per affondare nel torrente circolatorio e attingere al mio sangue. Ma tutte le volte i miei occhi sono fissi sulla bietta che perfora la mia carne.

E’ in vena al primo colpo.

Un fiotto di sangue percorre il primo tratto della cannula per poi fermarsi. Inserisce le provette una dietro l’altra e il sottovuoto risucchia velocemente il mio sangue dalle vene.

Sono sicura che stavolta le analisi andranno bene.

“Ti ho fatto male?”

Rispondo di no.

Snoda il laccio, molla il pugno, premi forte e stai seduta che se no forse svieni.

“Ricorda che alle due hai l’eco”

Alle due ecografia. Esco. I miei mi guardano. Quegli occhi fissi di mia madre

“Si vede che stai male, hai sempre un aspetto così malaticcio”

La guardo e comincio a contare nella mente: 1, poi 2, e 3… Me l’ha insegnato mio padre, anche lui lo fa ogni tanto, ma con le dita.

“Non hai il fisico, devi capire che non puoi andare avanti così”

4, 5, 6, 7 e storco il naso, mi pizzica la lingua e vorrei risponderle

“Hai dei limiti, ‘varda che occhiaie, che oci pesti..”

8, 9, 10…chiudo gli occhi e respiro a fondo

“Come sei pallida, fai preoccupare i tuoi genitori..perchè quando stai male tu, stiamo male anche noi!”

11, e penso che adesso arriva l’ondata dei ricatti morali…

“Già tuo padre, anche tu?”

12, 13 e il 13 porta sfiga, come il viola e allora attacco..

“Io sto bene, mi sento be…”

“NO!tu ti senti bene, ma le tue analisi dicono di NO!!!!Vuoi mettere la testa a posto?"
.

E c’ho un nervoso che mi sale lungo tutto il rachide e mi pizzica alla base del collo, mi si intesiscono i quadricipiti. Ma siete tutti pazzi? Ma la smettiamo di farmi apparire quella che non sono? E lo faccio.

La mollo a blaterare e mi fiondo sul maniglione antipanico, spalanco la porta e raggiungo il corridoio che dà accesso alle scale e comincio a correre giù. Sento che mi insegue, sento che la sua rabbia è triplicata, sento il suo sguardo addosso mentre si sporge dal corrimano, ma so che cosa devo fare: corro giù, ancora più veloce.

Un-du-tre-qua-cin-se-set-ott-nov-diec scalini, pianerottolo, e di nuovo un-du-tre-qua-cinq-se-set-ott-nov-diec scalini e reparto di Neurologia. Ancora scale stavolta due a due e comincio a sorridere, arrivo in Pediatria dove alle pareti ci sono i disegni dei bimbi, coloratissimi e stilizzati. Scale scale e reparto di Ortopedia. Il sorriso mi si allarga, la tensione si allenta, il mio corpo fluido e automatico va come un treno.

Sembra un meccanismo perfetto, com’è possibile che io stia davvero così male? Non è vero. Scale. Sorpasso un dottore, e arrivo a Nefrologia. Ancora giù. Un passo dietro l’altro, sempre più veloce. Niente sguardi di mia madre, niente parole, niente ramanzine. Reparto di Ginecologia. Corri giù sono sei piani per arrivare all’atrio principale. Quando arrivo al piano terra faccio un balzo. E rido tantissimo.

So orientarmi.

Cosa molto difficile da fare in un ospedale ma in fondo quando hai imparato a districarti in un labirinto, gli altri sono su per giù tutti uguali. Questo però lo conosco bene. Mi ci hanno portato tante volte, e ci hanno portato anche mio papà. Do una fugace occhiata ai corridoi che si diramano. Scelgo quello dove ci sono i distributori automatici, e a passo sostenuto lo percorro. Passo a fianco all’edicola, arrivo alla cappella. Dentro c’è una bellissima Madonna scolpita nel legno. Mi è sempre piaciuta quella statua. Mia mamma mi portava in cappella a pregare, io stavo in silenzio e mi chiedevo che cazzo ci facevo io lì. Assecondavo i desideri di mia madre, perché le voglio bene e so che lei ci tiene. Così per far scorrere il tempo guardavo quella statua e immaginavo l’albero dal quale l’avevano scolpita. La foresta alla quale l’avevano strappata. Le mani del falegname che ci avevano lavorato giorno e notte, il rumore dello scalpello, della raspa. Peccato che la maggior parte dell’arte italiana sia di quasi esclusivo soggetto religioso. In fondo quel volto così delicato, quello sguardo da mamma e quei veli così morbidi potrebbero solo essere quelli di una contadina qualunque, magari della moglie di un falegname, resa immortale della sua arte, e ora pregata in quella cappella da tante mani congiunte e gambe genuflesse a chiedere una grazia.

Ancora scale. Stavolta salgo. Un-du-tre-quat-cin-se-set-ot-nov-dieci pianerottolo un-du-tre-quat-cin-se-set-ott-nov-dieci. Non me la cavo affatto male nemmeno in salita anche se sono ancora digiuna, dalla sera prima, e mi hanno fatto un prelievo. Ma possibile che io stia male? Reparto Radiologia. Mi piace, è tutto nuovo. Ci sono delle enormi vetrate, è più luminoso degli altri reparti. Sto in realtà ancora scappando. Passo a fianco all’accettazione, a un ragazzo col gesso al braccio, coi capelli pieni di gel conglutinati in una piccola cresta, a una vecchia in carrozzina spinta da un infermiere. Mi fiondo in bagno. Chiudo la porta a chiave. Poggio le spalle contro il muro di mattonelle bianche. Mi avvicino al lavandino. Ho fame, ma devo rimanere a digiuno fino alle due per l’eco. Faccio scorrere l’acqua fredda sui polsi, metto le mani a conca così da raccogliere l’acqua e gettarmela in faccia. Mi guardo allo specchio. Ho i capelli della frangetta umidi e appiccicati alla fronte. Ho gli occhi stanchi, ma chi non li avrebbe al posto mio? Sono un po’ pallida, ma non ho fatto le vacanze al mare, anzi non le ho proprio fatte. Mi guardo e tutto sommato non mi vedo così male.

Mi sorrido e penso che la mia corsa è finita: TANA LIBERI TUTTI!!!!

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