giovedì 18 novembre 2010

Militante senza partito







“Tessere il filo della democrazia”.

Intervista a Bianca Guidetti Serra
Mercoledì 17 Novembre 2010
di Stefano Moro




Partigiana, avvocato penalista, consigliera comunale, parlamentare e autrice di libri di impegno civile e politico. Dagli anni della guerra e della lotta di liberazione a oggi, la vita di Bianca Guidetti Serra si è intrecciata giorno per giorno con la storia d'Italia e di Torino.
Bianca è stata testimone attenta e protagonista discreta di quasi un secolo di storia del nostro Paese,
dalla resistenza ai processi alle Brigate Rosse,
dalle battaglie per i diritti dell'infanzia agli anni delle schedature Fiat.
La sua vita ha incrociato quelle di altri
grandi protagonisti del 900,
come Primo Levi, Ada Gobetti e Norberto Bobbio,
contribuendo alla nascita e al consolidamento della democrazia in Italia.
Bianca è stata prima di tutto un avvocato, come suo padre.
Attenta fin da piccola ai più deboli e insofferente verso le ingiustizie, ha scelto in modo naturale gli studi e la carriera dell'avvocato, mestiere al tempo poco usuale per una donna. Facendosi strada tra difficoltà e pregiudizi, riuscì ad affermarsi nella sua professione a livello nazionale ed ebbe un ruolo di primo piano in processi importanti e mediatici come quello alla Banda Cavallero e quello alle Brigate Rosse, ma anche in processi molto difficili legati ai diritti dei lavoratori e alle malattie professionali, quali il processo ai vertici della Fiat per vent'anni di schedature e quelli contro l'Ipca e l'Eternit, soprannominate allora le "fabbriche della morte".
Con la sua professione e il suo testardo impegno civile,
Bianca ha più volte portato all'attenzione generale problematiche poco conosciute,
come la situazione delle fabbriche e quella delle carceri,
e ha continuamente stimolato l'innovazione dell'impianto legislativo del nostro Paese,
cercando di spostare sempre un po' più avanti la frontiera dei diritti.
Ma la sua vita non si esaurisce nel solo mestiere di avvocato, è difficile infatti non pensare a Bianca soprattutto come a una partigiana, che ha contribuito alla lotta di Liberazione con tutte le sue forze di giovane venticinquenne.
Fu scossa in prima persona da quanto stava succedendo in Italia sotto il fascismo e soprattutto dalle infami leggi razziali, che colpirono tanti suoi amici ebrei, tra cui il futuro marito Alberto Salmoni e lo stesso Primo Levi.



Anche per questo lottò senza risparmiarsi e si distinse per la sua attività nei "gruppi di difesa della donna" e per i cosiddetti "comizi volanti", discorsi tenuti nelle piazze e nei paesi senza scendere dal sellino della bici per poter scappare più rapidamente.

E poi, tra gli anni '80 e gli anni '90, c'è stata l'esperienza di consigliera comunale e parlamentare, esperienze istituzionali, da indipendente, piuttosto brevi, caratterizzate dalle proposte di legge sui diritti dell'infanzia, sull'abolizione dell'ergastolo e sulla messa al bando dell'amianto,
ma anche da una certa mancanza di feeling con il mondo che ruotava intorno alle istituzioni e ai palazzi della politica.

Una vita, insomma, caratterizzata da un forte impegno civile e da una grande fiducia nell'uomo e nelle sue possibilità di riscatto.

Una vita raccontata in modo coinvolgente e emozionante nell'autobiografia "Bianca la rossa", scritto con la collaborazione dell'amica scrittrice Santina Mobiglia e edito da Einaudi. Un libro di impegno civile che forse dovrebbe essere letto prima di tutto nelle scuole, da chi porterà con sé la responsabilità di "tessere quel filo della della democrazia" tanto faticosamente conquistata.

Bianca oggi ha 91 anni, ma quando dice

"vedo i mali del presente senza nostalgie per il passato"

mi rendo subito conto di quanto sia giovane. Vive ancora nella sua casa di via San Dalmazzo e accoglie ospiti e amici nello studio in cui ha sempre esercitato la sua professione, seduta alla scrivania di legno massiccio appartenuta a suo padre. Per un attimo, nel suo studio, sembra di tornare a diversi decenni addietro e di vivere la trepidazione di quelle mamme di cui si parla nel libro, sedute di fronte a lei per chiederle una mano a tirare fuori dai guai i loro figli.

Quello che mi ha lasciato l'intervista a Bianca è difficile da esprimere, ha a che fare con l'atmosfera della sua casa e la storia che trasuda da ogni quadro e ogni libro del suo studio. Nelle prossime righe troverete qualche stralcio di quella che è stata più che altro una conversazione, amichevole e informale, con una donna forte e umile, che ci ha lasciato un'eredità molto impegnativa.

Una donna a cui "è piaciuto il fare", come ama dire lei stessa.

Bianca, com'è nata la sua passione per il mestiere di avvocato?

Sono figlia di un avvocato e forse questo mi ha in parte influenzata. Come vedi, ancora adesso uso la scrivania dello studio di mio padre, che è proprio questa qui su cui siamo appoggiati. La scelta di giurisprudenza all'università è stata in un certo senso naturale, ma fin da bambina ho sempre avuto, come dire, il senso del difendere. Ero una bambina grande e grossa, anche se oggi non si direbbe, ed ero una di quelle che difendevano i bambini più piccoli, mi veniva naturale. Anche dopo gli studi, quando ormai esercitavo la professione, sono sempre stata più interessata al rapporto umano con le persone che mi capitava di difendere piuttosto che al diritto in sé, in un certo senso non sono mai stata una giurista.

Non era quello che cercavo nella professione. Quello che mi motivava era il senso del difendere i poveri cristi. Quando da piccola vedevo un povero diavolo che chiedeva l'elemosina, non potevo aiutarlo, perché non avevo soldi da dargli, ma pensavo ripetutamente a come avrei potuto essergli utile. E' difficile da spiegare ma sono sensazioni come questa che mi hanno spinta a fare l'avvocato, più che una propensione per gli aspetti giuridici. Poi, più avanti, con l'esperienza e la maturità, sicuramente l'aspetto giuridico è diventato importante, e con esso la possibilità di cambiare le leggi o di fare pressioni sul Parlamento, ma tutto questo è venuto da sé, in seguito. All'inizio d'altra parte eravamo pochissime, come donne, iscritte all'albo degli avvocati e dovevamo conquistarci giorno per giorno la nostra autorevolezza nelle aule dei tribunali. Non posso dimenticare il giorno del mio primo processo penale, al tribunale di Pinerolo, quando mi alzai per parlare in difesa di tre operaie della Val Chisone e il Pubblico Ministero mi interruppe dicendo "chiedo che la signorina dimostri che ha il titolo per difendere". Ma poi le cose sono migliorate ed oggi questo non è più un mestiere necessariamente da uomo.

Lei ha spesso difeso i più deboli, non di rado anche i più odiati, i colpevoli. E' il caso della banda Cavallero, ad esempio. Cosa ha significato per lei difendere persone che in quel momento avevano sconvolto l'opinione pubblica?

Devo ammettere che mi sono lasciata trascinare e appassionare molto da quel processo. Era uno di quei casi in cui era assolutamente chiara la responsabilità. Ma era una responsabilità che nasceva dalla condizione sociale in cui erano nati gli imputati e dalla condizione contingente delle loro vicissitudini.
Il 25 settembre del '67 c'era stata, per le vie di Milano, una sanguinosa sparatoria durante un inseguimento in auto di una banda di rapinatori, che per nove anni aveva compiuto rapine tra Torino e Milano e quel giorno aveva appena assaltato due banche. Il tragico bilancio fu di quattro morti e quattordici feriti solo tra i passanti e l'opinione pubblica ne fu sconvolta. Io al processo difendevo Adriano Rovoletto, l'autista della banda. Da tempo conoscevo la mamma, come anche quella di Piero Cavallero, ed entrambe vennero da me dopo i fatti di Milano. Me le ricordo bene, erano sedute proprio qui dove siamo ora. Dovetti tuttavia rinunciare alla difesa di Cavallero, poiché me lo chiese prima la mamma di Adriano e professionalmente non era opportuna la difesa di entrambi, considerato che avrebbero anche potuto arrivare a una posizione di contrasto in fase processuale. Come dicevo, fu un processo e una vicenda umana cui mi appassionai molto, e come avvocato e come donna sentii proprio la sfida, per così dire, di capire le motivazioni dei fatti violenti che erano stati commessi. Le loro azioni erano state sicuramente orribili e da censurare, tuttavia non si poteva trascurare il contesto.

Molte delle azioni che violano il lecito sono volute e organizzate, però ci sono anche casi in cui gioca un ruolo notevole la casualità, l'ambiente in cui ci si trova, la famiglia. E questo fa una differenza enorme per me, di responsabilità morale oltre che giuridica.

A volte si tenta di rimediare in modo illecito a fatti ed esperienze vissute. Come avvocato sono convinta che tutti abbiano diritto alla difesa. La parte più affascinante di questa professione è proprio andare a capire e spiegare perché una persona si è comportata in un certo modo. E così che, a volte, pur non giustificando le azioni di una persona, si arriva per lo meno a ridimensionarne la responsabilità. Questo però deve andare di pari passo con un'onestà di fondo che impedisca di voler considerare il proprio assistito non responsabile a priori e a tutti i costi. Non nascondo che tutto ciò è davvero difficile e faticoso, vuol dire lavorare molto sugli errori e sulle debolezze degli imputati, vuol dire cercare di capire e spiegare i fatti e le loro cause più nascoste. In questo senso, secondo me, un avvocato deve difendere anche chi è colpevole.
Sia Cavallero che Rovoletto e Notarnicola furono ben presto condannati all'ergastolo e dovettero affrontare una detenzione molto dura, fatta di aggressioni, rivolte, isolamenti e trasferimenti. Con il tempo però i regolamenti penitenziari cambiarono e i detenuti conquistarono alcuni diritti, come i permessi e alcuni spazi di autonomia, che mi permisero di incontrarli più facilmente durante la loro detenzione e diedero loro la possibilità di imparare a dipingere o a fare dei lavoretti. Dopo circa vent'anni di reclusione erano ormai persone molto diverse e ottennero la semilibertà. Cavallero negli ultimi anni della sua vita si dedicò al volontariato presso il Sermig di Torino e morì nel '97 di enfisema polmonare. Rovoletto ha trovato lavoro come falegname e autista, Notarnicola invece gestisce un bar a Bologna e mi ha telefonato per molti anni a Natale per farmi gli auguri. In effetti è successo diverse volte che le persone che ho difeso siano venute a trovarmi, anche a processo finito, magari in occasione di un permesso di qualche ora. E questo devo dire che mi ha sempre fatto piacere, perché testimoniava un senso di vicinanza e di rapporto umano, tant'è che sceglievano di spendere in questo modo un'occasione rara come quella di un permesso, anche in un momento in cui non c'era più nessun legame professionale tra noi.

In effetti il Cavallero del Sermig era una persona molto cambiata rispetto al protagonista della cronaca di quel 25 settembre. E' corretto dire che ciò che l'ha spinta in tante battaglie giudiziarie è anche una grande fiducia nell'essere umano? La convinzione che, con il giusto contesto, qualcosa di buono si possa sempre tirare fuori dalle persone?

Sì, io in questo ci credo. Credo nel recupero della persona, non tanto per la società quanto per se stessa. Ovviamente c'è chi ripete azioni criminali, chi non riesce a vincere quella parte di se stesso, ma credo nella possibilità di cambiare e di recuperare: è il caso di Notarnicola, di Cavallero stesso e di molti altri che ho incontrato. E' anche per questo che ho fatto una battaglia forte contro l'ergastolo e ho proposto una legge, quand'ero parlamentare, per la sua abolizione, perché la condizione che permette la riabilitazione o la rieducazione è avere una prospettiva di reintegro. Se la prospettiva è di essere rinchiuso per sempre, allora non ha più senso neppure l'articolo della costituzione che dice che la pena deve avere una funzione rieducativa.

Se quel gruppo lì della banda Cavallero ne è venuto fuori, vuol dire che c'è una buona probabilità che, se la società riesce a dare una risposta adeguata, il reintegro sia possibile. Il fatto che si sia ottenuta la semilibertà, grazie alla legge Gozzini, ha permesso loro di uscire per qualche ora e per Cavallero ha significato poter venire a Torino e frequentare il Sermig durante la giornata. E prima ancora, quand'erano al carcere di Porto Azzurro, sull'isola d'Elba, è stato importante che avessero, ad esempio, la possibilità di fare un giornale dei carcerati o che qualcuno potesse incontrarli, aiutarli, suggerire loro un libro, mantenendo insomma un rapporto umano. Per questo per me sono sempre stati importanti i rapporti mantenuti anche durante e dopo la detenzione.
E' questo l'aspetto più affascinante del mestiere, dare una mano a una persona, stimolarla, darle fiducia. Ma non è facile, e alla fine è piuttosto raro un totale reinserimento nella società, qualche problema si incontra sempre, è difficile, faticoso. Però è fondamentale non considerare queste persone inevitabilmente perdute, ma provare ad aiutarle, per esempio cercando di contenere la sanzione, in modo che paghino quel che è giusto e che poi si possa più avanti rivedere la loro situazione e il loro cambiamento.
Anche per questo mi è piaciuto intervistarli, quand'erano a Porto Azzurro e poi in libertà, registrando delle conversazioni in cui chiedevo loro proprio come mai avessero commesso quegli atti, come e quando si fossero poi sentiti cambiati e che ruolo avessero avuto le persone incontrate in carcere. In quell'occasione ebbi tante conferme. La sanzione va bene, è importante, ma non deve mancare la possibilità di ripresa, di recupero. In certe condizioni, può capitare a tanti di sbagliare. La società deve respingere nel momento della pena, ma poi deve saper accogliere di nuovo. Se la società continua a respingere queste persone, allora rimarranno sempre fuori.

Nel '68 ha difeso molti ragazzi ed è diventata un riferimento per gli studenti, come ha vissuto quei difficili anni di contestazione?

In quei processi ero davvero partecipe, e spesso mi sentivo vicina alle persone che difendevo. Non ero esterna, erano cause condivise. E questo mi imponeva un maggior rigore professionale, gli imputati erano dei ragazzi, dovevo prestare molta attenzione a dire "avete ragione" o "avete torto", "sei responsabile ma ti difendo lo stesso". E' stato più che mai importante, in processi come quelli, mantenere una chiara distanza tra il piano professionale e il piano del merito, non bisognava identificarsi, ma mantenere chiaro il ruolo di avvocato, questo proprio nell'interesse delle persone difese.
In quegli anni avevo un calendario fittissimo di processi e mi spostavo di continuo tra Torino, Genova, Pisa, Lucca, Firenze, Milano e molte altre città per affrontare casi legati quasi sempre a manifestazioni di piazza di studenti e operai. Erano gli anni delle occupazioni, degli scioperi, degli sgomberi, delle assemblee, ma in quel periodo difesi anche molti obiettori di coscienza, erano i tempi in cui diversi giovani venivano arrestati per non aver risposto alla chiamata di leva. Finché finalmente, nel 1972, venne riconosciuto il diritto all'obiezione di coscienza, come risultato dell'impegno di tanti, da Aldo Capitini e don Milani fino a Marco Pannella.
La lotta politica e studentesca era molto diffusa, mi capitò per esempio di difendere Adriano Sofri per blocco stradale davanti al municipio, così come difesi diversi giovani accusati di resistenza aggravata durante scontri di piazza. Seguii più avanti, in rappresentanza della parte civile, il processo per l'uccisione di Roberto Franceschi, colpito da un proiettile della polizia durante una protesta davanti all'università. Eravamo di fronte a una vera e propria ondata di azioni giudiziarie e spesso gli imputati erano giovani e operai con scarse possibilità economiche. Sul piano generazionale li vedevo come figli e condividevo i motivi di fondo della contestazione studentesca e di quella lotta per i diritti e per le libertà democratiche, non senza qualche insofferenza per l'estremismo verbale e i difetti dell'analisi. Furono anni molto impegnativi e pieni di contraddizioni, che diedero una spinta forte verso grandi conquiste democratiche, come lo Statuto dei lavoratori e la riforma del diritto di famiglia, e videro il miglioramento della vita penitenziaria e l'apertura ad una maggiore partecipazione nella scuola e nel sindacato. Tuttavia non si può trascurare il fatto che ad un certo punto qualcosa di oscuro iniziò a introdursi nella società italiana e più avanti, in un clima di violenza politica molto forte, per alcuni la contestazione sfociò in azioni terroristiche. Tardai, come tanti, a cogliere quei segni, ma non si può neppure ridurre a questo l'esito di quegli anni di movimenti. Certo, però, mi chiesi tante volte, durante gli anni di piombo, come mai non riuscimmo a trasmettere alla generazione venuta dopo di noi il senso pieno di una democrazia così faticosamente conquistata.

Nella sua vita ha avuto un rapporto un po' controverso con il partito comunista. Cos'è che l'attirava del comunismo? E cos'è che l'ha delusa?

Già da piccola leggevo abbastanza, e ad un certo punto mi sono trovata a leggere qualcosa sul comunismo. E del comunismo mi piacque subito l'idea dell'uguaglianza. Ero una ragazza e vedevo che i ragazzi avevano più diritti di me. Più avanti, iniziando a lavorare, fu proprio il concetto di uguaglianza tra tutte le persone che mi piacque, oltre che ovviamente tra uomo e donna. L'avere pari diritti era una cosa che sentivo moltissimo. E poi il senso della giustizia, che era strettamente legato anche alla mia attività professionale. Ecco, mi sembrava che il comunismo rispondesse a queste aspirazioni: l'eguaglianza tra le persone per annullare le differenze tra poveri e ricchi e consentire di esercitare i diritti e creare una società in cui tutti potessero vivere in modo dignitoso. Io ci ho creduto molto, e ci credo ancora adesso, anche se in termini diversi. Era proprio questo sentire che mi spinse verso il comunismo, e fu forse anche merito di mia mamma, una persona umile, di famiglia operaia, che fin da giovane lavorò sodo, facendo la sarta insieme a sua sorella e andando in giro per i negozi a chieder se avevano bisogno. Lei mi raccontava del suo lavoro e, anche se per lei non era una cosa politica, per me e la mia generazione lo era. Poi ci sono state le leggi razziali, l'ingiustizia che mi colpì di più, anche personalmente. Il fatto che un gruppo di persone, tra cui diversi miei amici, venissero giudicate diverse ed escluse dalla società è una delle cose che ha più inciso su di me ed ha costituito il mio primo incontro con l'impegno pubblico e la politica. Porto ancora oggi immutate quelle sensazioni e quelle convinzioni.
Poi ovviamente i comunisti li incontrai durante la resistenza, nel '43, e mi sembrarono sicuramente i più convincenti e più organizzati. Dopo la guerra lavorai molto al sindacato, occupandomi in particolare delle lavoratrici del settore tessile e dell'ufficio legale della Cgil. Nel frattempo avevo superato gli esami di procuratore legale e, dopo il praticantato, trasformai il salotto di casa nel mio studio. Continuavo a essere iscritta al PCI, convinta della prospettiva di una società nuova, con pari diritti e giustizia sociale. Una visione molto semplice, che accompagnava la mia attività di base nelle fabbriche e nei quartieri. Ma cresceva in me un certo disagio verso i limiti della democrazia interna al partito, le modalità di attribuzione delle cariche, la scarsa comunicazione e l'insofferenza verso i dubbi e le obiezioni della base. L'invasione dei carri armati sovietici in Ungheria, nel novembre del '56, segnò per me la rottura definitiva. Proseguii la mia attività politica e la mia professione da "militante senza partito".



Leggendo la sua autobiografia si ha la sensazione che lei abbia trovato più soddisfazione e più opportunità di cambiare le cose nel ruolo di avvocato che non nei ruoli di consigliera comunale o di parlamentare. E' corretto dire che l'esperienza istituzionale l'ha un po' delusa?

Mah, diciamo che il deputato io l'ho fatto un po' casualmente, non sono partita con l'idea di farlo, non ci avevo mai pensato. A un certo punto me lo hanno proposto e ho cercato di capire se poteva essere uno strumento per conoscere meglio la realtà del nostro Paese e sperimentare delle soluzioni. Alla fine l'ho fatto, come indipendente, e ho cercato di muovermi in modo che fosse una cosa utile.
Posso dire di aver fatto volentieri sia la consigliera comunale che la parlamentare, ma non ho mai avuto una grande propensione per le cariche e credo anche di non possedere quella grande capacità di iniziativa che penso debba avere chi ricopre questi incarichi. La società cambia continuamente, e se hai responsabilità così alte devi avere doti e capacità non indifferenti. Io ho fatto del mio meglio, come per la legge sull'amianto, cercando di portare la mia esperienza e i miei rapporti con le fabbriche, le questioni delle malattie professionali e la proposta di abolizione dell'ergastolo. Tuttavia avevo la sensazione che in quelle sedi istituzionali si facesse un po' "quello che si poteva", chi con più capacità chi meno, e non credo che questo basti per guidare uno Stato.

Lei ha più volte detto che la democrazia è un processo, che bisogna continuamente alimentare, altrimenti si esaurisce. Cosa intende esattamente?

Con la Resistenza e con le conquiste successive, la mia generazione ha raggiunto un risultato importante, una convivenza basata sulla possibilità di confrontarsi e talvolta anche anche scontrarsi, ma senza sopraffarsi. Cosa che invece accadeva regolarmente nell'epoca in cui ero cresciuta io. C'era una parte che doveva tacere ed era schiacciata. Oggi invece abbiamo un sistema, la democrazia, in cui ci si può confrontare ed è possibile esprimere le proprie idee senza precipitare nella guerra, senza il passaggio alla forza. Un luogo in cui tutti hanno determinati diritti e gli stessi doveri.
Tessere il filo della democrazia vuol dire preservare e far evolvere tutto questo. Bisogna continuamente vigilare che il tessuto della democrazia non si smagli, non si sfrangi troppo, perché altrimenti si possono creare dei buchi che risucchiano tutto il resto. Tutto cambia continuamente, cambiano le esigenze, cambia lo stato delle persone, il modo di vivere, parlare e vestire, e cambia il modo di stare insieme. Anche le regole cambiano, e quando risultano inadeguate vanno cambiate, così a volte bisogna lottare per cambiarle e altre volte per difenderle e non perdere pezzi rispetto alle conquiste del passato. Ogni generazione ha la sua responsabilità nella costruzione di una democrazia. Una costruzione che non finisce, non si ferma. La democrazia è un qualcosa che va sempre alimentato. Molte conquiste del passato sono state "assorbite" e sono diventate un patrimonio comune, ma altre si sono perse per strada. C'è ancora un lunghissimo cammino da percorrere. Il fatto di poter scegliere, di poter avere la propria opinione e di farla valere democraticamente presuppone che ci siano le giuste condizioni per farlo, presuppone cioè che si abbia una certa cultura, che ci sia un certo ambiente, che nella scuola ci siano insegnanti capaci e così via. E tutto questo non succede e non funziona da sé. Non bisogna dare per scontato che la democrazia sia sempre lì, stabile, e che non si possa tornare indietro. Io credo sia questo il grande compito delle nuove generazioni e, per fortuna, oggi ci sono anche tanti strumenti che aiutano a informarsi, a studiare, a ricercare, e non sono più beneficio di pochi.
La nostra generazione ha dovuto conquistarsi la democrazia, la vostra ha la responsabilità di "essere" democratica.

Oggi nella società c'è una precarietà molto diffusa e negli ultimi anni abbiamo di nuovo assistito a scontri di piazza anche drammatici. Lei che ha vissuto il periodo della strage di Piazza Fontana e quello delle Brigate Rosse, vede come reale la possibilità di tornare ad anni bui come quelli? vede dei pericoli per la democrazia in Italia?

Credo che i pericoli ci siano, però credo anche che oggi ci siano più strumenti per evitarli. Le conquiste del passato ci forniscono strumenti più efficaci per scongiurare un ritorno a un periodo buio come quello degli anni di piombo. I ragazzi vanno di più a scuola, c'è una maggiore comunicazione, con tanti difetti ma anche tante qualità, c'è un'idea più diffusa dei propri diritti e di quelli degli altri e c'è anche, secondo me, un maggior senso dell'aiuto reciproco. Io credo che qualcosa in più, rispetto al passato, si sia nelle condizioni di fare.

Un'ultima domanda, le piace ancora passeggiare per le vie di Torino?

Sì, lo faccio ancora e mi piace molto. Tutta la mia vita è legata a questa città, l'università, la professione, le fabbriche... sì, Torino mi è sempre piaciuta e continua a piacermi anche oggi, che è cambiata tanto. Ho amato anche viaggiare, ma ricordo bene come il ritorno mi fosse sempre gradito.



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