martedì 10 novembre 2009

A volte è l'arte a salvarci e a volte siamo noi a salvare l'arte


Mi siedo in cucina,
nel silenzio,
senza luce,
e assaporo l'amara sensazione dell'assurdo.
Piano piano la mia mente va alla deriva.

Pierre Arthens...
Despota brutale,
assetato di gloria e di onori,
il quale tuttavia si sforza sino alla fine
di perseguire con le parole un'inafferrabile chimera,
lacerato tra l'aspirazione all'Arte e la brama di potere...

In definitiva, dov'è il vero?
E dove l'illusione?
Nel potere o nell'Arte?

Non è forse con la persuasione di discorsi imparati a memoria
che portiamo alle stelle le creazioni umane,
mentre denunciamo come crimine di illusoria vanità
la sete di dominio che ci agita tutti
- sì, tutti,
ivi compresa una povera portinaia nella sua guardiola striminzita,
la quale,
pur avendo rinunciato al potere esteriore,
ciò non di meno insegue nella sua testa sogni di potenza?

Come scorre la vita dunque?
Giorno dopo giorno ci sforziamo
con risolutezza
di fare la nostra parte in questa commedia fantasma.
Da primati quali siamo,
la nostra attività consiste essenzialmente
nel mantenere e curare il nostro territorio
affinché ci protegga e ci soddisfi,
nell'arrampicarci
o almeno non scendere
nella scala gerarchica della tribù,
e nel fornicare in tutti i modi possibili
- foss'anche con la fantasia -
sia per il piacere
che per la discendenza promessa.
Allo stesso modo
usiamo una parte non trascurabile della nostra energia
per intimidire o sedurre,
poiché queste due strategie
da sole
assicurano la brama territoriale,
gerarchica e sessuale
che anima il nostro conatus.
Ma niente di tutto ciò raggiunge la nostra coscienza.

Parliamo di amore,
di bene e di male,
di filosofia e di civiltà,
e ci attacchiamo a queste rispettabili icone
come una zecca assetata al suo cagnolone caldo.
Tuttavia,
talvolta
la vita ci pare una commedia fantasma.
Come strappati da un sogno,
ci guardiamo agire e,
raggelati nel constatare il dispendio vitale
necessario a conservare i nostri requisiti primitivi,
ci chiediamo sbigottiti che cosa ne è dell'Arte.

D'improvviso,
le nostre smorfie frenetiche
ci sembravano il colmo dell'insensatezza,
la nostra casetta confortevole,
frutto di un debito ventennale,
una vana usanza barbara,
e la nostra posizione nella scala sociale,
tanto dura da conquistare
e così eternamente precaria,
una logora vanità.

Riguardo alla nostra discendenza,
la contempliamo con occhio nuovo e inorridito
perché,
senza gli abiti dell'altruismo,
l'atto della riproduzione appare profondamente fuori luogo.
Restano solo i piaceri sessuali;
ma, trascinati nel fiume della miseria primigenia,
vacillano come tutto il resto,
poiché la ginnastica senza amore
non rientra nel quadro delle nostre lezioni imparate a memoria.

L'eternità ci sfugge.

Nei giorni in cui tutte le credenze romantiche,
politiche,
intellettuali,
metafisiche
e morali
che anni di istruzione ed educazione
hanno tentato di imprimere in noi
crollano sull'altare della nostra natura profonda,
la società,
territorio attraversato da grandi onde gerarchiche,
affonda nel nulla del Senso.

Fuori
i poveri e i ricchi,
i pensatori,
i ricercatori,
i potenti,
gli schiavi,
i buoni e i cattivi,
i creativi e i coscienziosi,
i sindacalisti e gli individualisti,
i progressisti e i conservatori;
non sono che ominidi primitivi
i cui sorrisi e le cui smorfie,
le andature e le acconciature,
il linguaggio e i codici,
inscritti nella mappa genetica del primate medio,
significano solo questo:
mantenere la posizione o morire.

In quei giorni avete disperatamente bisogno d'Arte.
Aspirate ardentemente a riavvicinarvi all'illusione spirituale,
desiderate appassionatamente che qualcosa vi salvi dal destino biologico,
affinché la poesia e la grandezza non siano del tutto estromesse da questo mondo.
Allora bevete una tazza di tè
oppure guardate un film di Ozu,
per sottrarvi al cerchio delle disfide
e delle battaglie
che sono prerogativa della nostra specie dominante,
e per dare a questo patetico teatro
l'impronta dell'Arte e delle sue opere maggiori.










Muriel, Barbery

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