venerdì 29 maggio 2009


Quando ero solo un due.

"Per noi due stretti di fianco la ressa dei compagni, la confusione dell'osteria gremita era uguale a una nicchia di bosco, in cui stare invisibili, appartati. Ci parlavamo a due centimetri tra bocca e faccia, ogni parola era un mezzo bacio, arrivava all'altro con il gusto d'insalata, di minestra. Se ci scappava un bacio era per concludere un discorso. Un'allegria serissima sviluppava l'amore. Era leale, senza sforzo di fare bella figura, senza scuse né grazie e altre partite doppie. E se finiva te lo sbatteva in faccia che finiva, che uno dei due passava via e niente questionari, come mai, perché, com'è successo, ma tu m'avevi detto, scritto, fatto: niente, perché il mondo scoppiava di rivolte da seguire e tu con le tue coronarie costipate eri da schiaffi prima che da ridere. Giusto, ma intanto non mi era capitato ancora e non lo sapevo com'era il guasto della sua mancanza. La ragazza passava via da me e uno schifo di dolore mi pigliava, ero rincitrullito a indolenzirmi tanto, a lacrimare dietro i pugni stretti. Uno che sceglie di stare con la moltitudine, può mai farsi azzoppare dalla perdita di intimità con una persona sola? Non gli basta fare coppia con i molti? La sorpresa di non sedermi accanto, di sedermi e basta, di parlare agli altri e non guardarla mentre mi ascoltava, la sorpresa di parlare e basta, e tutto il resto del dafarsi senza una sua parola, il dafarsi e basta, mi faceva sbandare, la sorpresa. La solitudine che fa i peggiori agguati nella gioventù, l'avevo contrastata con lei o con la comunità dei molti arrabbiati di giustizia? Allora non lo sapevo e oggi non lo so più, ma ci dev'essere stata un'ora mia per conoscere di cosa era fatto il rovescio delle solitudini, il contrario di uno."





Provando a essere il contrario di uno.


"Siamo venuti per questo, ci mettiamo impegno e lo passiamo. Siamo a metà parete, sotto lo strapiombo che chiamano schiena di mulo. La nuvola è fitta, non sappiamo che tempo sta facendo fuori di lei. Ci guardiamo: usciamo. In gergo vuol dire: in vetta, si va dritti, si prosegue la scalata. Ci affidiamo alla tenuta della nostra nuvola che non si disfi in pioggia e bagni roccia e corda.

Siamo due: in parete è molto più del doppio di uno. Attacco le vertebre basse della schiena di mulo, sbuffo su prese viscide, metto corda in tutto quello che offre la via, anche un cuneo di legno che è lì da cinquant'anni. Supero la difficoltà, lei segue, in crescita di agilità. Fuori dalla sezione dei tetti ha più sicurezza. Mi raggiunge. Siamo in un camino spaccato che non mostra fine, dritto e stretto. Mi tiro su scansando la sua testa, il nostro due si distacca di nuovo a dipanare una bava di corda tra noi: siamo un'unica bestia che s'infila, si ritrae, s'attorciglia intorno a un ancoraggio e poi si sfila verso l'alto. In cima al camino lei perde un appoggio, scivola di piede, s'aggrappa con uno strappo di nervi, le scappa di dire: "tieni," certo che tengo stretto, ma non serve, neanche stavolta s'appende alla corda, recupera invece da sola.


...


Andiamo dritti sopra, dove la parete s'inclina e la linea di salita è meno evidente. La nuvola insacca il pilastro, andiamo un po' a tentoni, trovo qualche traccia, consumo tutto il tratto di corda che ci separa, cinquanta metri, mi accorgo che non me ne può più allungare, mi fermo a uno spuntone. Il sacco della nuvola perde una pioggerella che stuzzica gli occhi, vedo il suo punto rosso che arriva luccicante risalendo dal fondo grigio di vapore e pietra. Ci guardiamo le facce gocciolose. Siamo quasi fuori, anche se non si vede la cima. Siamo due, il contrario di uno e della sua solitudine sufficiente.

La corda s'ammucchia sopra i piedi, lei si avvicina e io le guardo il nodo stretto in vita. Non per controllare se è a posto, ma per affetto verso un'alleanza di corda. "Che stai guardando?" dice la sua voce. "Guardavo il tuo nodo." Se lo controlla: "È a posto, no? Si può sapere a che pensi?"."Al numero due," rispondo.


Tutti i nostri passi hanno seguito un desiderio. Per esaudirlo abbiamo dovuto metterci i piedi sopra e calpestarlo."


Erri.

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