me i marmocchi dell'orco mangiabambini. Forchette e coltelli alzati, stavamo per addentarcele, tutte nude sui loro canapè, quando d'un tratto: driin!
"E Julie!" esclamo.
E il mio cuore in un balzo è alla porta.
Era proprio la mia Correncon, i suoi capelli, le sue forme, il suo sorriso e tutto il resto. Ma dietro di lei... Dietro di lei, il vecchio più rovinato che avesse mai portato qui. Doveva essere stato
piuttosto alto, ma era così cadente che non aveva più altezza. Doveva essere stato piuttosto bello, ma se i morti hanno un colore, la pelle di quel tizio aveva quel colore. Un pelle cascante, all'interno della quale fluttuava uno scheletro spigolosissimo. Ogni gesto formava un angolo che minacciava di lacerarsi. I capelli, i denti, le unghie e il bianco degli occhi erano gialli. Le labbra non c'erano più. Ma la cosa più impressionante era che all'interno di quella carcassa e in fondo a quello sguardo si indovinava una terribile vitalità, qualcosa di risolutamente indistruttibile, l'immagine stessa della morte vivente che la smania dell'eroina dà ai tossici duri in astinenza.
Insomma, Dracula in persona!
Julius il cane era filato ringhiando a nascondersi sotto un letto. Coltelli e forchette ci erano caduti dalle mani e nei piatti le quagliette avevano la pelle d'oca.
Alla fine, è stata Thérèse a salvare la situazione. Si è alzata, ha preso per mano lo zombi e l'ha portato al suo tavolino, dove ha subito cominciato a costruirgli un futuro, come aveva fatto con
gli altri tre nonni.
Io ho trascinato Julie in camera mia e le ho fatto una scenata bisbigliata della serie furore a denti stretti.
"Ma cosa ti sei, bevuta il cervello? Portarci in casa un rudere in quelle condizioni! Vuoi che ci resti secco proprio qui? Ti sembra forse che la mia vita sia troppo semplice?"
Julie ha un dono. Il dono delle domande che mi troncano la parola. Ha chiesto:
"Non l'hai riconosciuto?"
"Perché? Dovrei conoscerlo?"
"E Risson."
"Risson?"
"Risson, l'ex libraio del Grande Magazzino."
Il Grande Magazzino era il posto dove lavoravo prima delle Edizioni del Taglione. Anche lì facevo il capro espiatorio e sono stato cacciato dopo che Julie ha scritto sul suo giornale un lungo
articolo sulla natura del mio lavoro. C'era in effetti un vecchio libraio, dritto, testa bianca, splendido, pazzo per la letteratura, ma con nostalgie ferocemente nazi. Risson? Ho dato una rinfrescatina all'immagine del vecchio sfatto che Julie ci aveva appena rifilato, e ho confrontato... Risson. Forse. Allora ho detto:
"Risson è un vecchio stronzo, il suo cervello è pieno di merda, non lo reggo".
"E gli altri nonni?" ha chiesto Julie senza smontarsi.
"Cosa, gli altri?
"Che ne sai del loro passato, di quello che erano quarant'anni fa? Spazzola, per esempio, magari era un informatore della Gestapo? Un parrucchiere è uno che registra tutto, no? Quindi uno che
parla... E Verdun? Vivo e vegeto dopo la Grande Guerra, non è che per caso si è nascosto dietro i suoi compagni? E Bistecca, macellaio in Algeria, t'immagini? 'Il macellaio di Tlemcen', non sa-
rebbe male per firmare un massacro..."
Continuando a sussurrare, faceva saltare i nostri primi bottoni e il suo lamento felino scivolava direttamente nel velluto del mio orecchio.
"No, credimi, Benjamin, è meglio non andare a scavare nella vita di nessuno, la prescrizione è una buona cosa."
"Prescrizione, un cazzo! Mi ricordo parola per parola la mia ultima conversazione con il vecchio Risson: quello ha una croce uncinata al posto del cuore."
"E allora?"
(La prima volta che ho visto Julie, stava rubando uno shetland nel reparto maglioni del Grande Magazzino. Le sue dita si avvolgevano su se stesse e la mano aspirava. Ho deciso seduta stante di
diventare lo shetland di Julie.)
"Benjamin, la cosa importante non è sapere cosa un Risson abbia pensato o fatto quando il suo cervello funzionava, ma di combattere i porci che gli hanno ridotto il cervello a un colabrodo. "
Non so come Julie abbia fatto, ma quest'ultima frase fu pronunciata sotto le lenzuola, e mi sembra proprio che nei paraggi non ci fosse più nemmeno l'ombra di un indumento. Ma lei non
mollava il suo argomento.
"Lo sai perché Risson si è ridotto in quello stato?"
"Me ne sbatto."
Era vero. Mi era indifferente. Non più in nome di un'etica antirissoniana, ma perché le mammelle di Julie sono il letto del mio cuore . Ha comunque voluto spiegarmelo mentre mi servivo . E con tutte le dita fra i miei capelli mi ha raccontato l'avventura di Risson.
...
Julius si stacca dalla sua Africa ghiacciata e continuiamo il nostro giretto, con direzione Koutoubia, il ristorante del mio vecchio amico Hadouch e di suo padre Amar. Belleville può tranquillamente contorcersi intorno alle sue budella, nulla modificherà il tragitto del pensatore e del suo sacco di pulci. Al momento, il pensatore sta evocando la donna amata. "Julie, mia Corrençon, dove sei? Cazzo, se tu sapessi quanto mi manchi!" Giusto un anno fa, Julie (che all'epoca chiamavo Julia) entrava discretamente nella mia vita. Donna nomade, mi chiese se accettavo di essere la sua portaerei. "Posati, bella mia, e decolla quando vuoi, ormai io navigo nelle tue acque." Ho risposto qualcosa del genere (Eh sì, com'era bello...) Da allora passo la vita ad aspettarla. Perché i giornalisti di talento scopano solo tra un articolo e l'altro, ecco l'inconveniente. E se almeno sgobbasse in un quotidiano?... ma no, la mia Corrençon si esprime in un mensile. E pubblica solo ogni tre mesi. Sì, l'amore trimestrale, è questo il mio destino. "Perché ti occupi di quei vecchi tossici, Julie? Forse un matusalemme che si fa le pere può essere lo scoop dell'anno?" Dovrei vergognarmi di questa domanda, ma non ho tempo. Una mano, emersa dalla notte, mi agguanta per il collo e mi solleva da terra. Decollo e atterro.
D'un tratto, sono stanco del mondo, e non ho sonno. Al diavolo le consegne di sicurezza, alzo il telefono e chiamo Julie. Ho bisogno della sua voce. La voce di Julie per cortesia...Niente, suona vuoto nella notte.
"Julia?"
La porta è semiaperta, quando arrivo sul pianerottolo di Julia con in mano le foto della pseudo-infermiera. E dal pianerottolo mormoro:
"Julia?"
Timidamente. Con un duplice battito del cuore: un battito di passione, un battito di preoccupazione.
"Julia..."
E poi sono costretto a vedere quel che non ho voglia di vedere: la serratura è stata forzata. Il catenaccio di sicurezza è saltato.
"JULIA!"
Spalanco la porta. Verdun. (La città.) Insomma, quel che resta dopo. Si fa persino fatica a credere che un giorno tutto questo possa essere ricostruito. La tappezzeria e la moquette sono state strappate, il letto, il divano e tutti i cuscini sono stati sventrati. I mobili sono stati smontati asse dopo asse prima che tutto venisse spaccato. I libri della libreria giacciono squartati in mezzo al massacro, le pagine sono state strappate a manciate. La tivù e lo stereo sono stati svuotati delle loro viscere elettroniche e le due metà del telefono sono volate da un lato e dall'altro del loft, come separate da un colpo di machete. La tazza del cesso è stata strappata dallo zoccolo, la corazza stagna del frigo giace in terra a pancia in su, i tubi dell'acqua sono stati portati alla luce e tagliati su tutta la lunghezza. L'impiantito di legno è saltato, listello dopo listello, sistematicamente, e con esso il battiscopa.
Niente Julia.
Niente Julia?
O niente più Julia?
Il cuore mi batte in modo bizzarro nel petto. Un battito che non conosco. Solitario. Che rimbomba nell'enorme vuoto. Come un appello che non verrà mai più udito. Mi è appena stato trapiantato un nuovo cuore, un cuore di vedovo. Perché gente che è capace di ridurre così un appartamento può fare di tutto quando ha fra le mani una Julia. L'hanno uccisa. Me l'hanno uccisa. Mi hanno ucciso Julia.
Ci sono quelli che vengono schiantati dal dolore. Quelli che diventano pensosi. Ci sono quelli che parlano del più e del meno sull'orlo della tomba, e continuano in macchina, del più e del meno, neanche del morto, di piccole cose domestiche, ci sono quelli che dopo si suicideranno e non glielo si vede in faccia, ci sono quelli che piangono molto e cicatrizzano in fretta; quelli che annegano nelle lacrime che versano, quelli che sono contenti, sbarazzati da qualcuno, ci sono quelli che non riescono più a vedere il morto, tentano, ma non ce la fanno, il morto ha portato con sé la propria immagine, ci sono quelli che vedono il morto ovunque, vorrebbero cancellarlo, vendono i suoi tre stracci, bruciano le sue foto, traslocano, cambiano continente, ci riprovano con un vivo, ma niente da fare, il morto è sempre lì, nel retrovisore, ci sono quelli che fanno il pic-nic al cimitero e quelli che lo evitano perché hanno una tomba scavata nella testa, ci sono quelli che non mangiano più, ci sono quelli che bevono, quelli che si domandano se il loro dolore è autentico o costruito, ci sono quelli che si ammazzano di lavoro e quelli che finalmente si prendono una vacanza, ci sono quelli che trovano la morte scandalosa e quelli che la trovano naturale con-l'età-per-cui, circostanze-che-fanno-sì-che, è la guerra, è la malattia, è la moto, la macchina, l'epoca, la vita, ci sono quelli che trovano che la morte sia la vita.
E ci sono quelli che fanno una cosa qualsiasi. Che per esempio si mettono a correre, a correre come se non dovessero mai più fermarsi. È il mio caso.
Il torrente è contro di me, ma niente può fermare l'uomo che corre quando non ha più meta, perché io corro in direzione del cimitero Père Lachaise e questa non si può chiamare una meta, la mia meta era Julia, la mia bella meta segreta, nascosta ben in profondità sotto la montagna degli obblighi, era Julia, ma io corro e non penso, corro e non soffro, la pioggia nera mi dà le ali cangianti del pesce volante, corro per miglia e miglia quando la semplice prospettiva di fare un centinaio di metri mi ha sempre fatto stramazzare, corro e non smetterei mai di correre, corro nella duplice piscina delle scarpe dove le mie idee annegano, corro e in questa mia nuova vita di corridore sottomarino - è incredibile come uno si abitui! - appaiono le immagini, perché si può sempre correre più in fretta delle idee, ma le immagini, quelle, nascono dal ritmo stesso della corsa, appartamento devastato, largo viso di Julia, piccolo cuscino pugnalato, brusca smorfia di Julia, telefono decapitato, urlo improvviso di Julia (è "questo" che hai visto, Julius?), grido anche di Julius, lungo grido straziato, battiscopa strappati dal muro, Julia sbattuta in terra, adesso corro di pozzanghera in schiaffo, di schizzo in urlo, ma non solo, ampio salto di canaletto di scolo e prima apparizione di Julia nella mia vita, l'ondeggiamento della sua criniera e quello dei suoi fianchi, libri squartati ma seni pesanti di Julie, colpi, schiaffi e colpi, ma grande sorriso di Julia sopra di me: "In argot spagnolo amare si dice comer," correre per essere mangiato da Julie, frigorifero disossato, cosa volevano sapere? E il pensiero che raggiunge le immagini, il pensiero così veloce nonostante il suo fardello di terrore, sapere cosa sapeva Julie, ecco quel che volevano, "meno ne saprai, Ben, e meglio sarà per l'incolumità di tutti". È vero, Julie, che non mettano di nuovo le mani su quei poveri vecchi, "non telefonarmi, Ben, non venire da me, tanto adesso mi eclisserò per un po'", ma se sono loro a venire da me, mentre corro come un coglione, e se fosse proprio questo quel che volevano sapere, il nascondiglio dei nonni, e se ora lo sanno, e se avessero fatto il percorso inverso, loro, entrando di forza in casa mentre la mamma è sola con i bambini e i nonni? Pozzanghere, schiaffi, canaletti di scolo, terrore, attraverso il viale all'altezza del liceo Voltaire, clacson, imprecazioni, slittate e ammaccamenti, ma mi sono già tuffato come un gabbiano ubriaco in rue Plichon, ho attraversato rue du Chemin-Vert e sono venuto a schiantarmi contro la porta della ferramenta. I campioni sono terrorizzati, non c'è altra spiegazione. I campioni corrono a rotta di collo sotto l'effetto del terrore che polverizza tutti i record.
L'urto ha fatto esplodere uno dei vetri smerigliati e quando spalanco la porta di casa nostra un caldo rivolo di sangue mi cola sulla faccia, insieme alla brodaglia fredda del cielo. La ferramenta è vuota, ma non di un vuoto qualsiasi. Il vuoto precipitoso, il vuoto del distacco violento. Il vuoto dell'ultimo secondo. Il vuoto imprevisto che pianta in asso tutto. Il vuoto che dovrebbe essere pieno. Nessuno. Nessuno eccetto la mamma, immobile sulla sua poltrona. La mamma che gira verso di me un viso inondato di lacrime e mi guarda, come se non mi riconoscesse.
Verdun, mio vecchio Verdun, è proprio così. Nessuna notizia al mondo mi ha mai sollevato quanto quella della tua prossima morte. Te lo dico chiaro, nel taxi che mi scarrozza verso l'ospedale, perché arrivato lassù tu possa cominciare da subito a perorare la mia causa. Non me ne vorrai, vero, se ho preferito la tua morte a un'altra, lo sai bene tu che cos'era l'esplosione di uniformi che non erano la tua? Ma l'Altro, lassù, l'Immenso Pirla, mica lo sa, lui, mica l'ha fatta la guerra, ha solo assistito, da molto in alto, per di qua le anime valorose. Non ha neanche fatto l'amore, Tutto Amore, pare, quindi non sa niente della meschina gerarchia dell'amore che fa sì che si preferisca la morte di un Verdun a quella di una Julia...
E Julia, adesso lo so grazie a te, Julia è immortale! Si sono accaniti contro il suo appartamento perché non hanno potuto mettere le mani su di lei e hanno torturato i suoi mobili perché lei gli è scivolata fra le mani, il che peraltro non ha nulla di sorprendente con il suo pedigree di avventuriera inafferrabile. Persino io non riesco a bloccarla in un letto. Diglielo da parte mia, Verdun, che me lo pagherà caro questo sollievo, al momento dei conti! E già che ci sei, diGli anche che Gli farò pagare la febbre spagnola della tua piccola Camille, di averti aiutato ad attraversare vivo cinque anni di tempesta d'acciaio per poi sparare quell'ultima raffica (o sublime raffinatezza): la febbre spagnola, e ucciderti la piccina, la tua piccina, la bambina per cui ti eri dato tanto da fare per restare in vita! Così rimuginavo con foga, nel taxi che mi porta da Verdun, rivolgendomi a Colui che se esiste prova che la merda è, come sospettavamo, all'origine del mondo, e che se non esiste, Innocenza quindi, è ancora più utile, capro come me, capro espiatorio, all'origine di niente ma responsabile di tutto. Sul parabrezza, i tergicristalli tagliano la tempesta. Si direbbe che sono il nostro unico mezzo di propulsione. Anche il tassista, come me, ce l'ha con l'Altissimo.
È Julia! È Julia! La mia Corrençon! Nel mio letto! Ha una gamba di gesso, una flebo nelle vene, tracce di ecchimosi in faccia, ma è Julia! Viva! La mia Julia, porco cane! Dorme. Sorride. Alla sua destra, in piedi, c'è Louna, e davanti al letto Jérémy, che me la mostra con un gesto teatrale annunciando:
"Zia Julia".
Chino sul letto come su una culla, faccio tutte le domande contemporaneamente:
"Cos'ha? Dove l'avete trovata? È grave? Chi l'ha ridotta così? È dimagrita, no? Quei segni sulla faccia cosa sono? E la gamba? Ma cosa ci fa qui? Perché non è all'ospedale?"
"Appunto," dice Jérémy.
Segue un silenzio vagamente inquietante.
"Appunto, cosa, perdio, appunto?"
"Appunto, era all'ospedale, Ben ma non la curavano bene."
"Cosa? Quale ospedale?"
"Saint-Louis, era all'ospedale Saint-Louis; ma non la curavano per niente bene," ripete Jérémy, i cui occhi lanciano degli Sos a Louna.
Silenzio. Silenzio durante il quale, più morto che vivo, finisco per dire:
"E perché non si sveglia quando parliamo?"
Ora Louna viene finalmente in aiuto a Jérémy: "È drogata, Ben, ci metterà un po' a svegliarsi, era già drogata quando l'hanno portata all'ospedale e lì hanno continuato a drogarla perché lo choc del risveglio non fosse troppo violento".
"Risultato, se l'avessimo lasciata all'ospedale non si sarebbe svegliata per niente," spara Jérémy. "Almeno, questo è quello che diceva Marty l'altro giorno."
Questa volta l'occhiata che gli lancio lo invita a spiegarsi subito:
"Ti ricordi quello scazzo tra il dottor Marty e un altro medico, Berthold si chiamava, quando io e te siamo andati alla morte di Verdun? Ti ricordi Ben? Che Marty urlava: 'Se continua a drogarla così finirà per ucciderla,' be', tornando ho buttato un occhio nella camera che indicava Marty, e nel letto c'era zia Julia, Ben, proprio lei!"
Come prova mi mostra la mia Julia, stesa sul mio letto.
Ecco dunque cos'hanno fatto, Jérémy e Louna, senza chiedere il parere di nessuno. Hanno semplicemente rapito Julia. L'hanno fatta uscire dall'ospedale, con la scusa di portarla a fare le radiografie. L'hanno caricata su una barella, le hanno fatto attraversare chilometri di corridoi, Louna con il suo camice da infermiera e Jérémy in lacrime a fare la parte della famiglia ("non preoccuparti, mamma, non è niente, vedrai"), poi sono usciti belli tranquilli, l'hanno caricata tutta addormentata nella macchina di Louna e poi, via!, fino alla mia stanza. Ecco qua. Un'idea di Jérémy, e adesso sono tutti fieri, tutti contenti, aspettando i complimenti del fratello maggiore, visto che secondo loro il ratto di un malato da un ospedale è un'azione che merita una medaglia... D'altra parte, mi hanno riportato la mia Julie. Fedele a me stesso, esito quindi fra due estremi: fare la sfuriata del secolo o stringermeli al cuore. Mi limito a domandare:
"Avete un'idea di come reagirà l'ospedale?"
"L'ospedale la stava uccidendo!" esclama Jérémy.
Silenzio del fratello maggiore, lungo silenzio meditativo. Poi, la sentenza:
"Siete dei tesori, tutti e due, mi avete dato la più grande gioia della mia vita... e adesso fuori dalle palle se non volete che vi riempia di botte..."
Dev'esserci qualcosa di convincente nella mia voce perché obbediscono immediatamente ed escono a ritroso dalla stanza.
Avevo passato la notte vicino a Julie. Ero scivolato accanto a lei con un progetto molto semplice: resuscitarla. Quei porci che l'avevano rapita le avevano bruciato la pelle con le sigarette. C'erano ancora le tracce e ora somigliava a un grosso leopardo addormentato. Vada per il leopardo, purché rimanga la mia Julia. Non erano riusciti a cambiare il profumo della sua pelle, né il suo calore. Dovevano aver picchiato forte sul viso, ma la mia Corrençon ha un viso solido da montanara, e anche se i suoi zigomi erano ancora bluastri, non avevano ceduto alle botte e lo stesso dicasi per la falesia della sua bella fronte. Non le avevano rotto i denti, le avevano spaccato le labbra, che si erano richiuse e ora nel sonno mi facevano un sorriso paffuto ("amare, in argot spagnolo si dice comer"). Le avevano spaccato una gamba, irrigidita nel gesso fino all'anca, e sull'altra caviglia aveva un anello di cicatrici come se l'avessero messa in ceppi. Eppure nel suo sorriso c'era una sorta di certezza beffarda. Ce l'aveva fatta, non erano riusciti a farla parlare. (Ci metto la mano sul fuoco!) Doveva aver finito il suo articolo e l'aveva nascosto da qualche parte. Gli idraulici che le avevano smontato l'appartamento cercavano proprio quello. Ma il suo sorriso diceva a quegli stronzi che lei non era una giornalistucola qualsiasi che lasciava in giro per casa le minute di un affare del genere. But where? Dove hai nascosto i tuoi fogli, Julie? In realtà non avevo granché fretta di conoscere la risposta. Chi dice verità dice processo, chi dice processo dice testimonianze, chi dice testimonianze dice un esercito di sbirri, di giudici e di avvocati intenti a scuotere i miei nonnini dai piedi per far risputar loro tutto quello che io e i ragazzi siamo così faticosamente riusciti a fargli dimenticare.
D'altro canto, lasciare che la faccenda tiri per le lunghe vuol dire permettere a quei bastardi di drogare altri nonni, e il mio appartamento non è abbastanza grande né la mia vocazione abbastanza forte per dare alloggio a tutti i vecchi tossici della capitale. Un antenato per ogni moccioso scodellato dalla mamma mi sembra una quota più che sufficiente.
Ero quindi disteso accanto a Julia, oscillando fra questi pensieri contraddittori, quando decisi di combatterli con una risoluzione molto semplice: riportare Julie nel regno della coscienza. Conoscendola come la conosco io, sapevo che per fare questo c'era un solo mezzo: il trucco del principe azzurro. Sì, sì, lo so, ciò significa abusare vergognosamente della situazione, ma appunto, il più grande piacere mio e di Julia è abusare l'uno dell'altro senza ingannare noi stessi. Se mi avesse trovato al suo posto in questo momento, mellifluamente comatoso da una buona quindicina di giorni, da un pezzo avrebbe "tentato con ogni mezzo" (come dicono i responsabili) di ridarmi almeno la coscienza del suo splendido corpo. La conosco, va là. E visto che da viva è così gentile ho deciso di amarla addormentata. I primi a riconoscermi sono stati i suoi seni. Poi il resto è venuto appresso (saggia e lenta progressione del piacere di cui lei ha il segreto) e quando ho capito che la casa mi veniva aperta, parola mia, ci sono entrato.
Abbiamo giocato, poi dormito insieme finché qualcuno stamattina non è venuto a martellare di colpi la porta della mia stanza, e la voce di Jérémy si è messa a sbraitare:
"Ben! Ben! La mamma si è svegliata!"
Queste sono le tipiche cose che succedono a me: scopo con la mia bella addormentata nel bosco ed è la mamma a svegliarsi...
Perché accanto a me Julia continua a dormire, senza ombra di dubbio Oh! certo, posso testimoniare del risveglio interiore, ma il bel viso rimane chiuso, con sulle labbra lo stesso mezzo sorriso sfrontato che ieri ho analizzato con tanta finezza.
"Sono andati, Benjamin."
Thérèse mi comunica la notizia nel modo più freddo. Thérèse, la mia sorellina clinica, mi spezza in due il cuore con un delizioso colpo di bisturi.
"Sono partiti un'ora fa."
Clara e io restiamo sulla porta.
"Hanno lasciato una lettera."
(Perfetto. Una lettera in cui mi annunceranno che se ne sono andati. Perfetto...) Clara mi sussurra all'orecchio:
"Non dirmi che non te l'aspettavi, Ben?"
(Oh, sì che me l'aspettavo! Ma chi ha detto, mia Clarinette, che le disgrazie previste sono più sopportabili delle altre?)
"Dài, entra, siamo in piena corrente!"
Infatti la lettera è lì, sul tavolo della sala da pranzo. Quante lettere, in quanti film, su quanti comò, tavolini, caminetti, ho potuto vedere nella mia vita? Ogni volta mi dicevo: che cliché! uh, che stupido cliché!
Oggi, il cliché mi aspetta, bello rettangolare, bello bianco, sul tavolo della sala da pranzo. E rivedo Pastor inginocchiato al capezzale di Julia... È vergognoso approfittare di una donna addormentata! Quante false promesse deve averle sciorinato all'orecchio mentre lei era lì indifesa... disgustoso!
"Il cuore mi sanguina, Thérèse, non avresti un cerotto, qualcosa?"
(Non avrò mai il coraggio di aprire quella lettera...)
Clara deve sentirlo perché si avvicina al tavolo, prende la busta, la apre (non l'hanno neanche incollata), tira fuori la lettera, la scorre, lascia cadere con aria sognante il braccio ed ecco che la piccola neve finta scende al rallentatore nel suo sguardo di ragazzina.
"L'ha portata a Venezia, al Danieli!"
"Si è tolta il gesso, per l'occasione?"
È tutto quel che riesco a dire per cementare lo squarcio. ("Si è tolta il gesso?" non è male, no?) Forse... ma a giudicare dal duplice sguardo delle sorelline, la cosa non deve essere molto chiara.
Visibilmente, non colgono. Poi, all'improvviso, Clara capisce. E scoppia a ridere:
"Ma non è con Julia che Pastor è andato via, è con la mamma!"
"Prego? Ripetimelo un attimo, tanto per sapere?"
"Credevi che fosse andato via con Julie?"
È stata Thérèse a farmi la domanda. Non ride, lei, e continua:
"Ed è così che reagisci? Un uomo se ne va con la donna della tua vita e tu rimani lì impietrito su una porta aperta senza muovere un dito!"
(Cazzo, la piazzata!)
"È questa tutta la fiducia che hai in Julie? Ma che razza di innamorato sei, Ben? E che razza di uomo?"
Thérèse continua a sgranare il suo rosario di domande assassine, ma io sono già sulle scale, salendo i gradini quattro a quattro verso la mia Julia, volando verso la mia Corrençon, come il bambino già perdonato, sì mia Thérèse, sono un innamorato pieno di dubbi, ho il cuore che dubita. E perché mi si dovrebbe amare? Perché io invece di un altro? Puoi rispondere a questo, Thérèse? Ogni volta è un miracolo quando constato che sono proprio io! Tu preferisci i cuori muscolosi, Thérèse? I grossi cuori che pompano certezze?
Molte ore più tardi, dopo che Clara ci aveva portato la nostra omelette a letto, molte ore più tardi, dopo che Julius aveva ripulito la sua ciotola, Julie e io i nostri piatti, molte ore più tardi, dopo che il cadavere della nostra seconda bottiglia di Veuve Clicquot era rotolato ai piedi del letto, molte ore più tardi, corpi e cuori appagati, sfiniti, sbronzi, spompati, la mia Julie (la mia Julie, cazzo!), la mia Julie domanda:
"Allora, questa visita a Stojil?"
E mi sento rispondere, con quel poco di fiato che mi resta:
"Ci ha sbattuti fuori".
Molto più tardi ancora, dopo una seconda omelette, una terza Veuve e nuovi abbracci sono stato io a domandare:
"Secondo te, perché Pastor è andato via con la mamma?"
"Perché l'aspettava da sempre."
"Aspettava cosa?"
"Un'apparizione. Stando a quel che mi diceva mentre ero incosciente, poteva innamorarsi solo di un'apparizione."
"Era di questo che ti parlava?"
...
1 commento:
Bellissima LA FATA CARABINA! mi è piaciuto molto piu' del primo. Aspetto di leggere il terzo :)
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